L’artico, il cambiamento climatico e il futuro del pianeta visti dal nord
Testo e foto di Ada Grilli
Si è concluso da pochi giorni un mega Congresso a Reykjavík (Harpa Centro Congressi, Arctic Circle, 16-18 Ottobre, 1800 delegati da 50 Paesi) su tutti i possibili temi che stanno a cuore e riscaldano i dibattiti in tutti i Paesi del Nord – gli otto Paesi definiti artici (Islanda, Norvegia, Svezia, Finlandia, Canada, Russia, US con Alaska, Danimarca con la Groenlandia) – e tutte le numerose organizzazioni, associazioni, accademie e ong che in questi ultimi dieci anni sono nate e fiorite intorno al 66° parallelo. Al Congresso ha preso parte, tra gli altri big dei maggiori Paesi coinvolti nell’Artico, come ospite d’onore, il presidente della Repubblica francese Francois Hollande. Il suo intervento era atteso in quanto rappresentante del Paese che ospiterà a Parigi il prossimo summit sul clima (COP21). Il tema del cambiamento climatico, come era da aspettarsi, è stato oggetto di riflessioni, approfondimenti e discussioni sia nelle riunioni plenarie che nelle sessioni parallele.
I popoli del nord sono infatti seriamente preoccupati sia della destabilizzazione generale che il cambiamento climatico sta apportando alla natura e alle culture e alle economie dei Paesi artici, sia degli effetti subiti per l’inquinamento delle civiltà industriali a più basse latitudini nonché dei trasporti aerei e marittimi che utilizzano l’oceano artico come “corridoio” e scorciatoia per i trasferimenti commerciali dei prodotti petroliferi e industriali tra Asia, Europa e Nord America. Scarsi ancora (troppo) gli apporti delle organizzazioni dei popoli indigeni (Inuit e Sami) che, come in altre simili occasioni di confronto e discussioni pubbliche, restano confinati a ruoli di espressione artistica e di arti manuali, di “colore” in senso lato, anziché di significativo potere di autodeterminazione e confronto con le culture europee e nordamericane.