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Da Catania a Forza d’Agrò in vespone

Testo e foto di Maria Pia Mancini

 

La lava è dappertutto, fin sulle strade, fino al mare, fin dentro le case, gliele hanno anzi fatte intorno. Il mare è sempre presente, quando si vede impone la sua bellezza: è chiaro, multicolore, anzi multiblu; non l’ho mai visto veramente calmo. Quando non si vede c’è nell’aria, se ne può annusare l’odore. All’interno, i paesaggi verdi, rigogliosi, mi fanno pensare che debbano la loro esistenza spavalda alla vicinanza di questo mare. Siamo in un angolo di mondo che sa il fatto suo. Le case, basse e graziose, sono rosa, il colore che meglio riflette i raggi del sole, che ben si sposa con gli aranceti tutt’intorno. Ai miei occhi è questo che mi apre le porte alla Sicilia, una terra che scopro per la prima volta.
Ci attende un vespone, grazie a lui conosciamo l’ospitalità dei siciliani. Incontriamo persone semplici che non nascondono la loro natura: sono ritrosi e sospettosi, osservatori silenziosi, ma disponibili e consapevoli dell’incanto della loro terra. Salvatore trascorre due ore con noi, ci racconta un quotidiano fatto di incertezze, ma con la rassegnazione di un popolo dominato da altri, dalla natura, dalla mentalità isolana, abituati a fare della precarietà una realtà. Non si affannano, non cercano di capire, cambiare, dominare. Se ne vanno, ma tornano, Come la coppia di benzinai che mi accoglie e mi racconta di un passato in una terra fredda e sconosciuta e del richiamo a casa, quasi fosse un evento ineluttabile. Lavorano di più, lavorano peggio, guadagnano meno, ma sono a casa. Come l’anziana signora che passa a far due chiacchiere e mi racconta di una vita accanto ad un uomo in giro per l’Italia, che ha scelto di andarsene dopo essere tornato a casa, troppo presto: lascia un vuoto profondo e solitudine, ma le lascia anche una casa in terra siciliana e tutt’intorno arance. E’ felice di averlo raccontato proprio a me, una sconosciuta, che però l’ascolta con rispetto ed attenzione, anche quando ha gli occhi pieni di lacrime. Il miracolo è avere tempo di stare ad ascoltare queste storie.
 

Un susseguirsi di paesini

Procedendo in vespa attraversiamo tanti paesini, tutti sul mare.
Aci Castello è molto carina e ci dà la prima impressione della singolare necessità di costruire dove si può. E’ tutto ammassato, sovrapposto: cattedrali imponenti strette tra una frutteria e un parrucchiere, stradine smilze e case basse che raccolgono in una sola parete quattro numeri civici; si entra davanti, di fianco, di sopra, a metà altezza. Ognuno per sé. L’agglomerato dei nostri condomini è lontanissimo.
E’ inverno, siamo gli unici non del luogo. Ci guardano, ma con discrezione. Se non gli parliamo noi non si fanno avanti.
Riscendiamo al mare e proseguiamo per Aci Trezza, più orientata al turismo, ancora più stretta ed arroccata. Le case sono più colorate. Chissà perché, nel restauro si tende a colorare le facciate delle case…
E’ affascinante quale influenza abbia su di noi questo viaggio. Non ci interessiamo a guide e spiegazioni, lasciamo che l’intorno agisca su di noi senza opporre resistenza.
Passiamo per Acireale senza occuparcene e svoltiamo per Stazzo. Una strada breve con poche case ai lati. Non c’è nessuno: neanche una finestra aperta, non una macchina, non un rumore. C’è una piccola spiaggia tonda, i cui unici bagnanti sono colorate barchette di legno. Un pescatore ha appena districato la sua rete e carica la merce su un’Ape. Ci lascia soli, a guardare il mare così vicino, il molo con due pescatori silenti, l’assenza di movimento. Respiriamo a fondo. Sembra che la nostra vacanza cominci qui. Questa è la nostra dimensione di incontro. L’aria sa di mare. Sa di pesce.
Arriviamo a Riposto affamati. C’è un mercato del pesce in stile liberty. Da noi ne farebbero un museo multifunzionale per eventi della quarta o quinta generazione: qui nasce come mercato del pesce e fa il mercato del pesce.
Per le strade poca gente: è l’ora post prandiale del riposo e delle imposte chiuse.
Entriamo in una rosticceria e quello che vediamo ci mette in condizione di non saper scegliere. La ragazza che si occupa di noi si scusa per la pochezza della scelta, vista l’ora tarda; a noi la difficile incombenza di scegliere tra una ventina di piatti diversi, tutti invitanti. Arrampicati su uno sgabello, consumiamo il nostro primo pasto siciliano che scatena senza indugio la fame di saperne e assaporarne di più.
 

Una natura che regola le regole

La natura qui pesa. Qui tutto è natura. Regola le regole. Avverto di essere ospite di una terra dove la natura è l’unica regista: tutto si muove come in una continuazione di lei. L’Etna maestoso, più grande e più lontano e più alto. Fumante. Monito costante di una volontà che non si piega. E’ tutto costruito come a caso, ma tutto racchiude un pezzetto di natura. Come se questi isolani volessero proteggerla, accattivandosi così la sua complicità. Alla quale devono la loro vita, le arance, i limoni, le spezie, il finocchio selvatico, sostentamento di tanti poveri di mezzi, il mare e la pesca e i porti. Senza di lei nulla sarebbe possibile. Quello che affascina noi per loro è il quotidiano. Eppure ne parlano con rispetto e con immensa giustificata ammirazione. Una terra da cui non si sfugge e di cui si consumano i prodotti spontanei che dà: il pesce saporito, gli ortaggi dall’aspetto quasi selvatico, il pane consistente e di grano duro, i formaggi che sanno di latte e non di artifizi, i piatti semplici e abbondanti.
Entriamo con rispetto nella riserva di Fiumefreddo. Vorremmo vederne di più, eppure non ci piace profanarla, preferiamo vederla dai bordi, che scendono fino al mare. Sempre lui.

 

Il borgo medioevale di Forza d’Agrò

Saliamo per una strada tortuosa a strapiombo sul mare, non senza una certa inquietudine. Il panorama è imponente. Entriamo nel borgo medioevale di Forza d’Agrò. All’unico albergo del paese, il “Souvenir”, ci accoglie il sig. Bruno, un uomo sorridente e disponibile. Ci dà la sua camera più bella, con vista sul mare. Siamo ospiti di una pensione semplice ed essenziale: un’atmosfera surreale ci fa temere di essere gli unici in quel luogo. Fa buio tutt’intorno. Saliamo per viottoli di sassi, saliamo e saliamo e ci troviamo davanti ad una chiesa d’epoca alla quale si accede attraverso un arco eretto al sommo di una scalinata. Non riusciamo a vedere sotto. E’ come se girassimo sul set di un film ormai concluso, ove rimangono costruzioni inadeguate alla dimensione di questo borgo singolare.
Ci impensierisce l’ipotesi di non trovare un luogo di ristoro. Eppure ne troviamo tre. Qui l’arte culinaria e dolciaria è sempre il miglior modo di dare ospitalità.
Ci svegliamo immersi nella foschia che così bene si accompagna al silenzio assoluto che ci circonda. Unico segno di una vita al di fuori della nostra è un intenso profumo di peperoni arrostiti, del quale non mi so, ancora, spiegare la provenienza.
Consumiamo una vera colazione all’italiana, vista dalla prospettiva di uno straniero: un piccolo bar semivuoto, ma accogliente, un tavolino con la tovaglia a quadri e le sedie impagliate, un cappuccino fumante e una “pasta”, come la chiamano qui, la cui consistenza non conosciamo, ma impariamo all’istante ad apprezzare.
La nostra meta adesso è il mare, nonostante il tempo, nonostante il vento, nonostante il freddo. Ci dirigiamo verso Taormina e ci troviamo in un luogo singolare, dove la spiaggia, composta di sassi multicolore, ben levigati e dalle incredibili movimentazioni geometriche, è una striscia con il mare intorno: una lingua di terra che unisce Capo Taormina a Isola Bella, un isolotto all’apparenza di sola vegetazione, sul quale si scorge però una casa, una volta dimora privata, ci spiegano, oggi museo di un ente pubblico.
Sostiamo per un po’, in silenzio.
Taormina è proprio dietro di noi. Scettici, pensiamo piuttosto ad una mostra permanente per turisti, con le casette colorate, i balconcini fioriti e i tavolini all’aperto.
Tutto questo c’è. Ma c’è anche molto di più. Il carattere della cittadina arroccata, arrampicata sulla montagna e su sé stessa, è più forte della legge turistica. Ci sono angoli, piazzette formate dall’incontro di due o tre case, vicoli: tutto qui dimostra il proprio carattere indomito. Una casa bassa, a due piani, non la più bella che incontriamo, ha sul balcone un pergolato fatto di vite, che attraversa tutta la parete e deve avere cent’anni.
Seguendo il flusso della gente arriviamo al teatro greco, stretto tra le costruzioni di una città che gli è cresciuta intorno, che domina tutta la baia. Peccato che non ci sia il sole, vedere il mare e assistere al tramonto attraverso le fessure dei suoi muri millenari deve essere uno spettacolo che non dimentica! Quello che colpisce il mio sguardo fotografico sono le piante: fichi d’india vecchissimi e l’incredibile fiore di una pianta, che si sporge come il collo di un cigno e che mi sovrasta in altezza.
 

Alla scoperta dell’Alcantara

E’ la tipica mattina sul mare, che a quest’ora ha un colore particolare, argentato ma pieno di aspettative, a differenza dell’argento della sera; l’aria è tesa, come se si preparassero grandi avvenimenti, e le cime degli alberi sembra che non si muovano.
Siamo ansiosi di partire: meta le gole dell’Alcantara.
Percorriamo la strada che abbiamo percorso già tante volte in così poco tempo, cher adesso ci appare sotto una nuova luce. Infatti è con il sole che la sicilianità della Sicilia viene fuori, lasciando intuire che solo questa è la dimensione ad essa consona. I colori sono forti e brillanti, il paesaggio è ricco di contrasti, la vegetazione verdissima, con le macchie più chiare dei fichi d’India e il giallo del fiore del finocchio, il mare è azzurro fino a verde smeraldo, la lava al posto degli scogli nera e in lontananza, costante presenza placida adagiata tra i figli minori, l’Etna con la neve sul fianco. Raccontiamo con entusiasmo di posti che ai nostri interlocutori devono sembrare irreali o almeno non immaginabili.
Arrivando alle gole dell’Alcantara ci auguriamo che questo posto di meraviglie, così viene descritto, non somigli neanche un po’ a quello che ci accoglie: un parcheggio ove sonnecchiano due bus, qualche macchina, un gruppo di tedeschi e, nell’insieme, un’impressione non invitante. Entriamo nel complesso, è tutto troppo organizzato.
Non possiamo risalire le gole a piedi nell’acqua: non è stagione, l’acqua è gelida, ci dicono. Cominciamo a scendere, quasi preparati alla delusione. Tra i rami spuntano penetranti raggi di sole. Arriviamo sul fondo.
Percorso un breve tratto accanto ad un ruscello, ci troviamo di fronte ad una bassa barriera di rocce grigie incredibilmente levigate, piccole dune che sporgono dall’acqua chiarissima. Alle loro spalle le gole. Si vedono due costoni di roccia, dalla conformazione stratificata, come se l’erosione avesse agito al contrario, e in mezzo al buio che provoca la loro vicinanza, scorre un fiume calmo ma vivo. Entra luce dall’altra parte. E’ come essere in un buco della terra dove arriva la luce e permette una vita prepotente alla vegetazione verdissima.
Torniamo a Giardini, con l’idea di una frittura di mare, e ci fermiamo davanti ad una trattoria, praticamente appoggiata sulla sabbia. Ma basta voltare lo sguardo per capire che il nostro posto è un altro: due tavoli all’aperto, tovaglia a quadretti, vista mare, enoteca. Ci sediamo davanti a melanzane, carciofi, pane “cunzato”, semplicissimo, non curato nell’aspetto e veramente buono. Non ci sono rumori, non ci sono persone, non crediamo ci sia nulla da dire. A parlare saranno poi le immagini, le fotografie che continuano a scattare.
 

Un paese da vivere sotto il sole

E finalmente ritorniamo a Forza d’Agro, il luogo che ci ospita. Con il sole, il piccolo borgo ci appare nel suo aspetto reale: non sembra neanche bello, la speculazione edilizia deve essere arrivata anche qui, è tutto incompleto, come se sul finire mancassero sempre i soldi. Ci inoltriamo nel vecchio borgo: la vera essenza di questa gente, dei loro umori e dei loro colori deve essere lì.
Rivediamo quello che abbiamo visto al buio: l’arco, la chiesa, i vicoli che ci sembravano disabitati, i balconi leggiadri, mai fioriti, ma ornati di piante verdi. Al buio sembrava tutto bellissimo, adesso lo vediamo tutto bellissimo.
E’ la parte vecchia, ma abitata del paese. C’è un negozio che vende generi alimentari e un po’ di tutto e una sorprendente macelleria, chiusa, che non solo ha una parte del muro esterno piastrellata, ma vanta una vetrina lunga con un gancio e dietro il vetro tutte piastrelle. Ce la immaginiamo con appeso un quarto di bue a far bella mostra di sé e per un momento vacilliamo sulle nostre certezze: ma non si faceva così cent’anni fa?
A casa lo troveremmo anacronistico, poco igienico, in un modo o nell’altro una stranezza nostalgica di poco significato; qui non c’è niente di sbagliato.
Alcune case sono perfettamente restaurante, con gusto e semplicità, ma anche senza risparmio di mezzi; altre sono rimaste com’erano, conciate alla bell’e meglio perché stiano in piedi e dentro ci sono maiali, pecore e capre. Arriviamo che più in alto non si va e ci troviamo davanti ai resti di un castello che deve essere stato incredibile: arrampicato su una vetta aguzza. si snoda sinuoso verso altre mini vette, coprendo così tutta la montagna. La prepotenza della vegetazione che si è fatta strada dappertutto non lascia dubbi: questa è una terra forte. Da contemplare: a sinistra il mare, alzando gli occhi un accenno di presenza umana e poi colline al sole, colline in ombra, rigogliose, coltivate, aspre, brulle; strade di sola terra che portano alla montagna; cespugli di finocchio, fiori giganteschi. Assistiamo al tramonto che, velocemente, in uno sfolgorio di rossi, ingoia il sole; quello che resta è un trionfo di toni blu-rosso-viola su una distesa di verde rotto solo da qualche macchia gialla.
Probabilmente è il desiderio di mangiare che ci fa credere di avere fame. Eppure non vediamo l’ora di scendere a cena. L’interrogativo di dove cenare neppure si pone: scendiamo una rampa di scale e troviamo mezza famiglia che aspetta di viziarci. Quella che all’apparenza dovrebbe sembrare una cena, diventa un banchetto di nozze. Noi, senza battere ciglio né mandare indietro qualcosa, banchettiamo. Riconosciamo i sapori: è come se ci fossimo sicilianizzati, non ci delude niente. La semplicità dei piatti ci stupisce, la bontà ci esalta. Una vita così è un sogno nel sogno.
Si torna indietro: siamo venuti dal mare, torniamo percorrendo la strada dell’interno attraversando tutti i paesi. Il nostro è un commiato. Una cosa l’abbiamo imparata: qui il tempo si allunga e noi ce lo prendiamo con spavalda cupidigia. Non sappiamo per quanto tempo dovremo rinunciare alla Sicilia e alle corse tra gli infiniti aranceti.
Troppo presto ci ritroviamo a Catania. Fa caldo in città. Ma non possiamo rinunciare ad una passeggiata catanese, tra sorprendenti chiese barocche e palazzi, belli ma sporchi, lungo larghe strade, come confini di una scacchiera.
Il nostro polo d’attrazione rimane comunque il mare e compriamo due biglietti per la “scogliera”, così chiamano il primo mare catanese che si incontra, dove trascorriamo alcune ore seduti sulla lava direttamente nel mare. Un paesaggio che, in piccolo, è un paradiso di colori smeraldini e piante acquatiche color fuoco, che ci porta con i pensieri lontano, ad immaginare il mondo in cui vorremmo veramente vivere, quel posto che rimane nei nostri sogni.

 

 

 

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